Il lato oscuro della sharing economy

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Diciamocelo, siamo tutti entusiasti per la sharing economy e la rivoluzione del mercato che questa forma di innovazione sta proponendo in diversi ambiti, dal trasporto persone all’individuazione di alloggi per le proprie vacanze.

La sharing economy interessa anche la ristorazione: abbiamo già parlato di come può essere un modello vincente per innovarla.

Va detto però che questa forma innovativa di economia collaborativa dovrebbe, nelle intenzioni, redistribuire parte della ricchezza agli attori che concorrono alla sua generazione.

Qualora questo non avvenga o avvenga in modo trascurabile c’è il rischio che l’innovazione sia eticamente insostenibile diventando così un’arma a doppio taglio che la porta a trasformarsi nell’anticamera di qualcosa di socialmente più inviso: non a caso si parla di gig economy.

La gig economy è un modello economico dove domanda e offerta vengono gestite online attraverso piattaforme e app dedicate: deriva dal termine gig, una parola dell’inglese americano informale che descrive un lavoretto o un incarico occasionale.

Questo è quanto sta accadendo a Foodora, una delle aziende leader in Italia per il food delivery che sta attraversando in queste ore una crisi reputazionale in seguito al cambiamento di modello di remunerazione dei propri fattorini.

Ma prima un passo indietro: Foodora si occupa di food delivery, ossia di consegnare cibo ordinato online direttamente al domicilio del cliente.
La procedura è semplice: scarichi un’app o navighi il sito, scegli cosa vuoi mangiare da una selezione di ristoranti della zona e paghi.

Da quel momento il ristoratore riceve l’ordine, lo prepara e un fattorino dell’azienda che si occupa della consegna sale in sella ad un mezzo di trasporto agile (solitamente una bici) e provvede a recapitarlo direttamente a casa con un modico contributo.

Le aziende come Foodora guadagnano, su ogni ordine, tanto sul valore della merce richiesta (solitamente un contributo percentuale che può raggiungere la soglia del 20-30%) quanto sul costo della consegna (20 centesimi sui 2,90 Euro di consegna).

I fattorini di Foodora venivano inizialmente remunerati alla cifra di 5 Euro l’ora che, ammettiamolo, non sono propriamente un compenso particolarmente appetibile considerando l’ordinario costo della vita nelle città in cui il servizio è presente (tipicamente grandi metropoli come Milano o Torino).

Già questo, in un Paese civile, dovrebbe essere motivo di attenzione: tuttavia quello che segue sembrerà ancora più imbarazzante, o almeno questo è l’effetto che ha fatto a noi.
Da pochi giorni infatti ai fattorini di Foodora è stato modificato unilateralmente il contratto proponendo una remunerazione non più basata sul tempo (la singola ora) bensì sul volume delle consegne: 2,70 Euro per ogni consegna effettuata.

Beh, ora già con due consegne all’ora possono superare quanto guadagnavano prima!

Errore.

Se il costo per ogni addetto alla consegna è stato, nel primo anno di attività dell’azienda in Italia, pari a 5 Euro l’ora è lecito supporre che l’azienda avesse fatto delle proiezioni per poter contare su un numero orario di consegne sicuramente superiore alle due unità.
Se infatti le consegne pagate dal cliente finale ammontano a 2,90 Euro e l’azienda prima spendeva 5 Euro l’ora per garantire il servizio è evidente che con due consegne l’azienda sarebbe andata in utile anche sul costo della consegna.

Foodora e il nuovo modello di consegna

La rimodulazione del contratto è avvenuta quindi perché queste proiezioni non sono risultate sostenibili: considerando una media di 15-20 minuti a consegna, appare evidente che sia estremamente difficile che un singolo addetto possa effettuare più di 3-4 consegne all’ora.

Ma poiché il numero di consegne concomitanti è necessariamente elevato a causa degli orari di consumo di cibi che sono sovrapponibili per gran parte della popolazione, l’azienda avrebbe dovuto avere un gran numero di fattorini attivi contemporaneamente per garantire un celere servizio.

Ma più è elevato il numero di fattorini più cresce il rischio che, per ogni singola ora di servizio, il volume delle consegne richieste sia inferiore rispetto agli operatori disponibili generando così una grande quantità di tempi morti che si traducono in una perdita per l’azienda.

Invece con la nuova modalità imposta ai fattorini si trasferisce il rischio d’impresa direttamente sull’addetto: il tempo che rimarrà fermo ad attendere che venga disposto un ritiro e riconsegna infatti non verrà pagato.

Ne consegue che l’azienda potrà avere anche migliaia di fattorini ed essere perfettamente in grado di servire i picchi di domanda senza rimetterci nei momenti immediatamente successivi dove le risorse saranno scariche di lavoro e per questo non riceveranno compensi.

Foodora e l’agitazione dei collaboratori

La situazione ha causato un’agitazione da parte degli addetti alle consegne che hanno organizzato nei giorni scorsi una manifestazione per i propri diritti già messi a dura prova dalle condizioni contrattuali: ricordiamo infatti che i fattorini non sono dipendenti ma collaboratori a chiamata e che per lavorare devono avere accesso all’app per prenotare il turno di lavoro.

Accesso che, ovviamente, può essere inibito per motivazioni del tutto arbitrarie.

Le persone coinvolte però, grazie alla pagina di Facebook Deliverance Project dedicata agli eventi descritti, hanno ottenuto un tam tam su internet che ha acceso i riflettori sulla vicenda.

Questo grazie anche e forse soprattutto all’involontaria complicità di Foodora nella gestione della crisi.

In primo luogo in virtù della frase proferita dai vertici dei responsabili aziendali in Italia che giudicano il lavoro in Foodora come “un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio”.

Si tratta di un’affermazione che confonde l’aspetto professionale di un lavoro, qualsiasi esso sia, ad una passione o un hobby e che ha contribuito a far divampare un incendio mediatico.

In secondo luogo la dubbia gestione, eticamente parlando, della crisi reputazionale come evidenziato dall’ottimo Matteo Flora.

Un caso che dovrebbe farci riflettere

Nonostante nelle ultime ore sembrerebbe che le parti stiano cercando di trovare una soluzione alla vicenda con un tavolo di crisi, quanto accaduto dovrebbe farci riflettere sulla sostenibilità di certi modelli di business affinché non si trasformino in modi eticamente riprovevoli per far rivivere logiche di sfruttamento che una società civile dovrebbe essersi da tempo lasciata alle spalle.

Per completezza di informazione vi rimandiamo agli articoli presenti sul Corriere e La Stampa.

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