La Regione Lazio vara la prima legge sulla gig economy

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Per regolare il fenomeno della gig economy la Regione Lazio ha varato un provvedimento legislativo di quattordici articoli che puntano a regolare il lavoro digitale e, nella fattispecie, l’attività dei fattorini impiegati dalle innumerevoli applicazioni per la consegna di cibo a domicilio.

La gig economy è una forma di economia che si basa sulla logica del lavoro on demand trattato alla stregua del cosiddetto lavoretto (dal termine inglese gig appunto).

Grandi aziende, spesso multinazionali, intermediano domanda e offerta per un servizio tramite la tecnologia e reclutano sul territorio le risorse umane necessarie a svolgerlo, spesso non garantendo le tutele minime salariali e assicurative che sarebbero necessarie.

Il condizionale è d’obbligo perché in realtà la gig economy si muove sui chiaroscuri di vuoti normativi: è il caso, per esempio, di tutti i fattorini impiegati per le consegne di svariati prodotti come le ordinazioni per il cibo a domicilio.

La Regione Lazio, con l’obiettivo di garantire un salario minimo orario, un profilo assicurativo e le tutele sanitarie fermando il cottimo, ha promulgato una legge che trae ispirazione dalla carta dei diritti fondamentali dei lavoratori digitali voluta dal Comune di Bologna ma con un maggiore applicabilità in quanto, in materia di lavoro, le Regioni hanno pieno titolo nel dettare legge e con aree di intervento più ampie di quelle municipali.

Una rivoluzione per le piattaforme della gig economy attive nel Lazio

Il Lazio quindi obbliga di fatto le compagnie appartenenti alla gig economy (Deliveroo, Foodora, Moovenda per citarne alcune) a rispettare salari che non potranno essere inferiori ai minimi stabiliti dai contratti nazionali adottati per attività similari, a garantire una tutela contro infortuni e malattie professionali, a fornire un’idonea formazione in materia di salute e di sicurezza garantendo anche tutti i dispositivi di protezione individuale per svolgere il lavoro.

Diventa inoltre obbligatoria l’assicurazione contro gli infortuni, per danni contro terzi ma anche per maternità o paternità senza che il lavoratore si debba fare carico di parte delle franchigie.

Infine diventa legge anche la trasparenza dell’algoritmo che regola l’assegnazione dei turni delle consegne e che spesso è stato al centro delle critiche dei lavoratori perché, non essendo trasparente la sua meccanica, risultava virtualmente possibile incidere sulla capacità lavorativa del lavoratore.

La Regione Lazio inoltre si impegna a creare un portale dedicato al lavoro digitale dove i lavoratori impegnati nel settore potranno iscriversi e così anche le applicazioni che recepiranno in toto le previsioni normative introdotte.

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Stop a Uber in Italia

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La permanenza di Uber in Italia è seriamente compromessa. Il Tribunale di Roma ha ordinato il blocco, entro 10 giorni, dei servizi offerti dal gruppo in Italia e una penale di 10mila euro per ogni giorno di ritardo nell’adempimento del blocco a decorrere dal decimo giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, ossia da 7 aprile 2017.

Lo stop interessa non solo i servizi della multinazionale ma anche la loro promozione e pubblicizzazione in Italia.

Per comprendere quale sarà davvero lo sviluppo della situazione bisognerà attendere i prossimi giorni anche se appare sin da ora chiaro che la multinazionale Uber rischia seriamente di dover interrompere ogni attività nel nostro Paese.

Stando alle decisioni dei giudici infatti, i servizi offerti dalla multinazionale, da Uber Black alle altre declinazioni (come Uber-Lux, Uber-Suv, Uber-X, Uber-XL, UberSelect e Uber-Van), risultano in aperto contrasto con il diritto nazionale e in concorrenza sleale con gli altri operatori del settore.

Primi fra tutti gli oppositori di Uber sicuramente i tassisti che sono i veri promotori della battaglia legale culminata nella recentissima sentenza che si affianca a quelle del Tribunale di Milano e di Torino in relazione al servizio Uber Pop.

I vertici di Uber hanno reagito in maniera pessima alla decisione del Tribunale di Roma dichiarando al contempo di avere l’intenzione di ricorrere in appello.

L’innovazione va tutelata ma va normata

Lo scontro però non sembra ancora finito visto che, di fatto, viene implicitamente sollecitata la politica ad affrontare il problema.

Quello di Uber è certamente un business che presenta diversi lati che dovrebbero essere normati ma rappresenta, al tempo stesso, l’innovazione in settori che dovrebbero essere portati al passo con i tempi dal momento che sono regolati da normative vecchie di oltre 20 anni.

Le problematiche attuali infatti sono figlie di distorsioni prodotte da una legge del 1992 che non poteva tenere conto dell’evoluzione tecnologia, delle app e degli smartphone.

Del resto, la premessa della sentenza con cui il Tribunale di Roma ha disposto il blocco dei servizi di Uber specifica che non è compito dei giudici valutare l’efficienza della normativa in vigore o la sua migliorabilità, ma di decidere esclusivamente alla luce delle leggi in vigore.

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Il lato oscuro della sharing economy

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Diciamocelo, siamo tutti entusiasti per la sharing economy e la rivoluzione del mercato che questa forma di innovazione sta proponendo in diversi ambiti, dal trasporto persone all’individuazione di alloggi per le proprie vacanze.

La sharing economy interessa anche la ristorazione: abbiamo già parlato di come può essere un modello vincente per innovarla.

Va detto però che questa forma innovativa di economia collaborativa dovrebbe, nelle intenzioni, redistribuire parte della ricchezza agli attori che concorrono alla sua generazione.

Qualora questo non avvenga o avvenga in modo trascurabile c’è il rischio che l’innovazione sia eticamente insostenibile diventando così un’arma a doppio taglio che la porta a trasformarsi nell’anticamera di qualcosa di socialmente più inviso: non a caso si parla di gig economy.

La gig economy è un modello economico dove domanda e offerta vengono gestite online attraverso piattaforme e app dedicate: deriva dal termine gig, una parola dell’inglese americano informale che descrive un lavoretto o un incarico occasionale.

Questo è quanto sta accadendo a Foodora, una delle aziende leader in Italia per il food delivery che sta attraversando in queste ore una crisi reputazionale in seguito al cambiamento di modello di remunerazione dei propri fattorini.

Ma prima un passo indietro: Foodora si occupa di food delivery, ossia di consegnare cibo ordinato online direttamente al domicilio del cliente.
La procedura è semplice: scarichi un’app o navighi il sito, scegli cosa vuoi mangiare da una selezione di ristoranti della zona e paghi.

Da quel momento il ristoratore riceve l’ordine, lo prepara e un fattorino dell’azienda che si occupa della consegna sale in sella ad un mezzo di trasporto agile (solitamente una bici) e provvede a recapitarlo direttamente a casa con un modico contributo.

Le aziende come Foodora guadagnano, su ogni ordine, tanto sul valore della merce richiesta (solitamente un contributo percentuale che può raggiungere la soglia del 20-30%) quanto sul costo della consegna (20 centesimi sui 2,90 Euro di consegna).

I fattorini di Foodora venivano inizialmente remunerati alla cifra di 5 Euro l’ora che, ammettiamolo, non sono propriamente un compenso particolarmente appetibile considerando l’ordinario costo della vita nelle città in cui il servizio è presente (tipicamente grandi metropoli come Milano o Torino).

Già questo, in un Paese civile, dovrebbe essere motivo di attenzione: tuttavia quello che segue sembrerà ancora più imbarazzante, o almeno questo è l’effetto che ha fatto a noi.
Da pochi giorni infatti ai fattorini di Foodora è stato modificato unilateralmente il contratto proponendo una remunerazione non più basata sul tempo (la singola ora) bensì sul volume delle consegne: 2,70 Euro per ogni consegna effettuata.

Beh, ora già con due consegne all’ora possono superare quanto guadagnavano prima!

Errore.

Se il costo per ogni addetto alla consegna è stato, nel primo anno di attività dell’azienda in Italia, pari a 5 Euro l’ora è lecito supporre che l’azienda avesse fatto delle proiezioni per poter contare su un numero orario di consegne sicuramente superiore alle due unità.
Se infatti le consegne pagate dal cliente finale ammontano a 2,90 Euro e l’azienda prima spendeva 5 Euro l’ora per garantire il servizio è evidente che con due consegne l’azienda sarebbe andata in utile anche sul costo della consegna.

Foodora e il nuovo modello di consegna

La rimodulazione del contratto è avvenuta quindi perché queste proiezioni non sono risultate sostenibili: considerando una media di 15-20 minuti a consegna, appare evidente che sia estremamente difficile che un singolo addetto possa effettuare più di 3-4 consegne all’ora.

Ma poiché il numero di consegne concomitanti è necessariamente elevato a causa degli orari di consumo di cibi che sono sovrapponibili per gran parte della popolazione, l’azienda avrebbe dovuto avere un gran numero di fattorini attivi contemporaneamente per garantire un celere servizio.

Ma più è elevato il numero di fattorini più cresce il rischio che, per ogni singola ora di servizio, il volume delle consegne richieste sia inferiore rispetto agli operatori disponibili generando così una grande quantità di tempi morti che si traducono in una perdita per l’azienda.

Invece con la nuova modalità imposta ai fattorini si trasferisce il rischio d’impresa direttamente sull’addetto: il tempo che rimarrà fermo ad attendere che venga disposto un ritiro e riconsegna infatti non verrà pagato.

Ne consegue che l’azienda potrà avere anche migliaia di fattorini ed essere perfettamente in grado di servire i picchi di domanda senza rimetterci nei momenti immediatamente successivi dove le risorse saranno scariche di lavoro e per questo non riceveranno compensi.

Foodora e l’agitazione dei collaboratori

La situazione ha causato un’agitazione da parte degli addetti alle consegne che hanno organizzato nei giorni scorsi una manifestazione per i propri diritti già messi a dura prova dalle condizioni contrattuali: ricordiamo infatti che i fattorini non sono dipendenti ma collaboratori a chiamata e che per lavorare devono avere accesso all’app per prenotare il turno di lavoro.

Accesso che, ovviamente, può essere inibito per motivazioni del tutto arbitrarie.

Le persone coinvolte però, grazie alla pagina di Facebook Deliverance Project dedicata agli eventi descritti, hanno ottenuto un tam tam su internet che ha acceso i riflettori sulla vicenda.

Questo grazie anche e forse soprattutto all’involontaria complicità di Foodora nella gestione della crisi.

In primo luogo in virtù della frase proferita dai vertici dei responsabili aziendali in Italia che giudicano il lavoro in Foodora come “un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio”.

Si tratta di un’affermazione che confonde l’aspetto professionale di un lavoro, qualsiasi esso sia, ad una passione o un hobby e che ha contribuito a far divampare un incendio mediatico.

In secondo luogo la dubbia gestione, eticamente parlando, della crisi reputazionale come evidenziato dall’ottimo Matteo Flora.

Un caso che dovrebbe farci riflettere

Nonostante nelle ultime ore sembrerebbe che le parti stiano cercando di trovare una soluzione alla vicenda con un tavolo di crisi, quanto accaduto dovrebbe farci riflettere sulla sostenibilità di certi modelli di business affinché non si trasformino in modi eticamente riprovevoli per far rivivere logiche di sfruttamento che una società civile dovrebbe essersi da tempo lasciata alle spalle.

Per completezza di informazione vi rimandiamo agli articoli presenti sul Corriere e La Stampa.

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